Furto d’auto in parcheggi a pagamento responsabilità del gestore del parcheggio.

La della Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di furto d’auto, il gestore del parcheggio dovrà risarcire il cliente, anche nel caso in cui vi siano dei cartelli con i quali si viene informati dell’esonero di qualsivoglia tipo di responsabilità.

Infatti, affinché l’esonero di responsabilità abbia efficacia, è necessario che il gestore abbia espressamente informato il cliente prima che questi attraversi la sbarra metallica, ossia prima che entri nel parcheggio. I Giudici Ermellini ritengono che l’avviso apposto all’interno del parcheggio, quando ormai il contratto è già stato stipulato, oppure riportato sul retro del biglietto stampato dalla macchinetta posta accanto alla sbarra, non è sufficiente per escludere il diritto al risarcimento.

La II Sezione Civile, della Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 27 giugno 2023, n. 18277 ha chiarito che: “(…) Il contratto di parcheggio meccanizzato a pagamento è senz’altro un contratto tipico dal punto di vista sociale, pur non essendolo sotto il profilo formale. Tale contratto si caratterizza per la formazione dell’incontro tra l’offerta della prestazione di parcheggio e l’accettazione mediante la concreta utilizzazione dei servizi offerti e quindi attraverso l’immissione del veicolo nell’area di parcheggio. È innegabile che l’offerta contrattuale formulata attraverso la predisposizione di un’area recintata di parcheggio meccanizzato a pagamento ingeneri in chi accetta l’offerta predisposta dal gestore l’affidamento che in questa sia compresa anche la custodia del veicolo; conseguentemente, deve ritenersi che nell’oggetto del contratto di parcheggio sia ricompresa l’obbligazione di custodia del mezzo. Stante la ricostruzione del contenuto dell’offerta di parcheggio, un’eventuale deroga al principio generale del parcheggio custodito necessita di espressa negoziazione e consenso delle parti, elementi che non possono risolversi nella mera apposizione di cartelli o clausole predisposte unilateralmente sul biglietto ritirato all’entrata o contenute nel regolamento affisso all’interno dell’area di parcheggio. Difatti, un’eventuale predisposizione di una clausola di esonero di responsabilità in capo al gestore del parcheggio deve essere indicata all’utente in maniera chiara ed univoca prima della conclusione del contratto, quando l’utente ha ancora la possibilità di scegliere se accettare o meno l’offerta, da approvarsi specificatamente per iscritto stante il carattere vessatorio. (…)”.

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Infiltrazioni provocate dalla ditta di riparazioni, di chi è la responsabilità.

In ordine a tale problematica, si deve prendere le mosse dall’art. 2049 c.c., il quale prevede che: “(…) I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti (…)”.

Il Tribunale meneghino, in data 12 giugno 2023, ha emesso la sentenza n. 4096, mediante la quale ha riconosciuto l’esclusiva responsabilità del proprietario dell’appartamento posto al piano superiore, custode dell’immobile, per i danni provocati dalle infiltrazioni d’acqua causate da un errato intervento di riparazione da parte della ditta dal medesimo incaricata.

Invero, nel caso in cui la ditta incaricata di effettuare dei lavori dovesse commettere degli errori e cagionare dei danni ad un altro appartamento non sarebbe direttamente responsabile, infatti la parte danneggiata agirà nei confronti del proprietario dell’immobile, che ha incaricato la ditta e che potrà, a sua volta, chiamarla in causa al fine di vedersi manlevare o comunque potrà rivalersi nei suoi confronti per ottenere il rimborso delle somme che ha dovuto versare a titolo di risarcimento.

Medesimo discorso dovrà esser fatto nel caso in cui i lavori siano stati incaricati dal Condominio, in questo caso il danneggiato agirà nei confronti del Condominio, il quale poi potrà rivalersi contro la ditta.

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Nessun compenso all’Amministratore del Condominio se non è riportato ed approvato nel bilancio. 

Il caso in oggetto prende le mosse dal ricorso proposto da un Amministratore di Condominio, il quale chiedeva il pagamento delle somme dovute a titolo di compenso per l’attività svolta.

Infatti, la Corte di Appello ha condannato l’Amministratore alla restituzione delle somme percepite in quanto non vi era prova dell’approvazione di alcun rendiconto relativo alla sua gestione.

La Corte, ha fondato la propria decisione sulla circostanza che il compenso per l’attività gestoria rientra nelle spese che necessitano di preventiva deliberazione ed apposita approvazione, e di ciò non ve ne era la prova.

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ritenuto corretta tale ricostruzione sottolineando che il compenso dell’Amministratore, essendo una spesa a carico del Condominio ed una specifica voce del bilancio richiede, in sede di deliberazione, l’approvazione inerente al consuntivo delle spese.

In particolare i Giudici Ermellini hanno asserito che: “(…) Così decidendo la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi consolidati in materia, secondo cui il contratto tipico di amministrazione di condominio è comunque riconducibile ad un rapporto di mandato presumibilmente oneroso (v. Cass. Sez. Un. 29/10/2004, n. 20957) e il diritto del mandatario al compenso e al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute è condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale (Sez. 2, Sentenza n. 1429 del 08/03/1979; Sez. 3, Sentenza n. 3596 del 28/04/1990); proprio le specifiche norme dettate in materia di condominio, poi, prevedono che l’assemblea sia esclusivamente competente alla previsione e ratifica delle spese condominiali, sicché in mancanza di un rendiconto approvato il credito dell’amministratore non può ritenersi né liquido né esigibile (Sez. 2, Sentenza n. 14197 del 2011; Sez. 2 -, Ordinanza n. 7874 del 19/03/2021). (…)” (cfr. Cass. civ., Sez. II, Ord., 21 giugno 2023, n. 17713).

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Quando una scrittura privata può configurare un testamento.

Affinché una scrittura privata possa configurarsi come un testamento è necessario, oltre alla forma scritta, che vi sia l’individuazione dell’effettiva e concreta volontà della parte di disporre del proprio patrimonio successivamente al suo decesso.

L’accertamento dell’effettiva volontà è rimesso al giudice del merito il quale, se correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.

 La VI Sezione Civile della Corte di Cassazione con l’Ordinanza del 24 settembre 2021, la n. 25936, sul punto ha chiarito che: “(…) Perché un atto costituisca disposizione testamentaria, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell’autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte; pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, occorrendo, altresì, l’accertamento dell’oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Siffatto accertamento – che, ove le espressioni contenute nel documento risultino ambigue o di valore non certo, presuppone la necessaria indagine su ogni circostanza, anche estrinseca, idonea a chiarire la portata, le ragioni e le finalità perseguite con la disposizione – involge un apprezzamento di fatto spettante al giudice del merito che, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. (…)” .