Assegno di mantenimento alla moglie.

L’assegno di mantenimento è un contributo economico di sostentamento che il coniuge con il reddito più alto è tenuto a versare in favore dell’altro.

Infatti, tra i coniugi, ancorché separati o divorziati (in questo caso si parla di assegno divorzile), vige l’obbligo di sostenere il coniuge che risulta avere un reddito insufficiente a far fronte alle proprie necessità.

 Ciò detto, si deve però precisare che l’assegno di mantenimento non è dovuto tutte le volte in cui il coniuge, con la capacità economica inferiore che non gli permette di far fronte alle proprie necessità, ha la possibilità di rendersi autonomo.

Inoltre, non rileva di per sé la disparità di reddito, per cui se un coniuge ha un reddito annuo di 30.000,00 Euro e l’altro di 100.000,00 Euro, il coniuge con il reddito più alto non è detto che dovrà versare delle somme in favore dell’altro.

Infatti, ciò che rileva sono le motivazioni che hanno portato il coniuge ad avere un reddito notevolmente inferiore, per cui se, ad esempio, di comune accordo i coniugi avevano deciso che la moglie si sarebbe occupata della famiglia, rinunciando così al lavoro o accettando un lavoro part-time, in questo caso le spetterà l’assegno di mantenimento, o divorzile.

Se invece, la scelta di non lavorare o lavorare part-time è una scelta personale della parte, allora il coniuge con il reddito più alto non dovrà versare alcunché.

Quanto sopra indicato è confermato recentemente dai Giudici Ermellini (Cass. civ., Sez. I, Ord., 15/06/2023, n. 17144 Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 21/06/2023, n. 17805).

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Responsabilità del Notaio che attesta l’identità delle parti in virtù di documenti falsi.

L’art. 49 della legge notarile prevede che il Notaio deve essere certo della identità personale delle parti e può raggiungere tale certezza, anche al momento dell’attestazione, con la valutazione di “tutti gli elementi” atti a formare il suo convincimento.

Per cui, il Pubblico Ufficiale nell’attestare l’identità personale delle parti, deve trovarsi in uno stato soggettivo di certezza in ordine alla citata identità, conseguibile anche attraverso le regole di diligenza, prudenza e perizia professionale nonché sulla base di qualsiasi elemento astrattamente idoneo a formare tale convincimento, quindi anche di natura presuntiva, purché, in quest’ultimo caso, si tratti di presunzioni gravi, precise e concordanti.

Sul punto la seconda sezione della Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 01 giugno 2023, n. 15490, ha chiarito che: “(…) In tema di responsabilità del notaio, se quest’ultimo ha identificato le parti sulla base delle carte di identità (successivamente risultate non autentiche), che ha fotocopiato, dell’esistenza di una procura speciale a vendere (la cui sottoscrizione poi è risultata apocrifa) e facendo affidamento sulla presenza all’atto dei funzionari bancari e di intermediazione con i quali le parti avevano intrattenuto pregressi rapporti, lo stesso non ha assolto all’obbligo di adeguata diligenza professionale sancito dall’articolo 49 della Legge Notarile poiché la sua certezza soggettiva della identità delle parti, raggiunta al momento dell’attestazione, non è stata conseguita attraverso elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti. (…)”.

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Il contratto di appalto tra privati è valido anche se non redatto in forma scritta. 

La giurisprudenza di legittimità, recentemente ha ribadito che il contratto di appalto tra privati, per essere valido e vincolante, non necessita della forma scritta, né ad substantiam e né ad probationem, potendo essere concluso anche per facta concludentia.

La seconda sezione civile, in data 26 gennaio 2023, ha emesso l’ordinanza n. 2386 in virtù della quale ha nuovamente specificato che: “(…) La stipulazione del contratto d’appalto tra privati non richiede la forma scritta ad substantiam, né ad probationem, potendo lo stesso essere concluso anche per facta concludentia. Ne consegue che la prova del contratto possa essere data per testimoni e per presunzioni ma le stesse devono necessariamente rivestire, a norma dell’art. 2729 c.c., i caratteri della gravità e precisione nonché, qualora siano più d’una, della concordanza. Pertanto nei contratti non soggetti all’obbligo della forma scritta, un documento privo di sottoscrizione, quale una minuta, può essere utilizzato dal giudice del merito come fonte di elementi presuntivi, da valutarsi in relazione ad ogni altra circostanza, al fine di dedurne l’esistenza di un accordo verbale corrispondente al contenuto del documento stesso. (…)” (nello stesso senso: Corte di cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 2303 del 2017; Corte di cassazione, Sez. 1, 5 agosto 2016, n. 16530; Corte di cassazione 26 ottobre 2009, n. 22616; Corte di cassazione, Sez. 2, del 16 luglio 1983).

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Mancata partecipazione alla mediazione civile ex D.Lgs. 28/2010, presunzione di dolo.

L’istituto della mediazione civile ha la funzione di alleggerire il carico giudiziale e si propone come alternativa o fase obbligatoria e preliminare all’instaurarsi di liti di natura civilistica. 

È stata introdotta con il Decreto Legislativo numero 28 del 2010. 

L’istituto è caratterizzato dall’assenza di formalità particolari, e si articola, a differenza del processo civile, in forma perlopiù orale.

Pertanto, mediante il citato strumento si cerca di risolvere bonariamente l’insorgenda controversia così evitando un inutile dispendio di tempo e di denaro.

La giurisprudenza di merito, in particolare il Tribunale di Termini Imerese, ha individuato un comportamento doloso della parte che, senza giustificato motivo, non ha ritenuto di dover partecipare all’invito notificatole.

Il Tribunale di Termini Imerese, nella persona del Giudice Dott.ssa Urso, con sentenza n. 412/2023, R.G.: 3553/2021, ha infatti chiarito e ribadito che: “(…) Consolidata giurisprudenza afferma che l’ingiustificata mancata partecipazione alla mediazione costituisce un comportamento doloso (sent. Trib. Roma 23.02.2017), in quanto idoneo a determinare l’introduzione di una procedura giudiziale -evitabile- in un contesto giudiziario, quello italiano, saturo nei numeri e smisuratamente dilatato nella durata dei giudizi, tanto da comportare la condanna al versamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio (cfr. ordin. Trib. Palermo 29.07.2015). (…)”.

Per cui, alla luce della costante giurisprudenza in materia, in caso di impossibilità a partecipare all’incontro di mediazione dovrà essere fatto presente, chiedendo un rinvio ad un’altra data.