Pignoramento della pensione.

Il decreto “aiuti bis” (DL n. 115/2022, convertito con legge n. 142/2022) ha aumentato la sogna limite di pignorabilità della pensione.

Nello specifico non è pignorabile la somma pari al doppio dell’assegno sociale e comunque non è pignorabile la pensione sino ad € 1.000,00, le somme eccedenti i 1.000,00 euro sono pignorabili nella quota di 1/5.

Per cui, ad esempio, se la pensione è di € 1.500,00 la somma pignorabile è 1/5 di € 500.

*** 

Come si rinuncia all’eredità.

Il testamento è un atto revocabile con il quale la persona, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, dispone, in tutto od in parte, dei propri averi.

Il testamento può essere: olografo (scritto interamente di proprio pugno dal de cuius, senza necessità di ulteriori formalità); pubblico (redatto dal Notaio alla presenza di due testimoni i quali non devono essere interessati all’atto, per cui, ad esempio non possono essere testimoni gli eredi) e segreto (ossia preparato dal de cuius, può esser scritto anche mediante mezzi meccanici o terze persone, ed è consegnato al Notaio, alla presenza di due testimoni, il quale lo custodirà).

Nel caso in cui il de cuis morendo lasciasse più debiti che crediti, il chiamato all’eredità potrà anche decidere di rinunciare all’eredità.

Infatti, se l’eredità venisse accettata senza il beneficio di inventario il patrimonio del defunto e quello dell’erede si unirebbero e, conseguentemente, i creditori del defunto potrebbero agire direttamente nei confronti dell’erede.

La legge, quindi, prevede la possibilità per il chiamato all’eredità di rinunciare, ovvero rifiutare, l’eredità, in modo da preservare il proprio patrimonio.

Per rinunciare all’eredità ci si deve recare da un Notaio, o dal cancelliere del Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e, successivamente, detta rinuncia dovrà essere inserita nel registro delle successioni.

*** 

Assegno di mantenimento.

L’assegno di mantenimento è la somma di denaro che viene versata da un coniuge all’altro ed, eventualmente, anche ai figli.

Nel caso di separazione consensuale, le somme che il coniuge versa all’ex vengono concordate insieme, per cui non sorge alcun tipo di problematica.

Nel caso in cui la separazione dovesse essere giudiziale, ossia le condizioni di separazione dovessero essere decise dal Giudice, il medesimo dovrà quantificare l’assegno di mantenimento in base a dei parametri.

Innanzitutto verranno esaminate le dichiarazione dei redditi, unitamente a tutto il patrimonio (immobili di proprietà, autovetture, saldo contabile sul conto corrente ecc…), nonché lo stile di vita che viene tenuto, una parte potrà anche chiedere al Giudice l’autorizzazione ad avviare indagini tramite la Guardia di Finanza con il fine precipuo di individuare eventuali evasioni fiscali o comunque altri beni od entrate economiche.

Oltre a ciò, il giudice quantificherà l’assegno di mantenimento anche in base alle spese mensili delle parti, alla capacità lavorativa del coniuge richiedente, alla casa coniugale di quest’ultimo, ad eventuali immobili o strumenti finanziari posseduti, alla durata del matrimonio. Pertanto, l’assegno di mantenimento è in diretta correlazione con la capacità e possibilità lavorativa, nonché con le ricchezze di proprietà del coniuge richiedente.

Relativamente alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli, in questo caso si deve garantire lo stesso tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio.

Per cui, anche in questo caso dovranno essere esaminate le dichiarazioni dei redditi, le spese che dovrà sostenere il genitore obbligato al pagamento, dovrà essere tenuta in considerazione l’età del figlio, nonché i beni, sia di prima necessità che non, di cui avrà bisogno nella crescita.

Il diritto al mantenimento del figlio durerà sino a quando il medesimo non riesca ad essere autosufficiente e quindi sino al termine degli studi e fino a quando non riesca a trovare una occupazione.

*** 

 Quando è previsto l’indennizzo per la somministrazione di un vaccino.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza n. 20539/2022.

Per rispondere a tale quesito si dovrà esaminare preliminarmente la L. n. 210 del 1992, la quale ha introdotto un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie.

In particolare, l’art. 1, comma l, prevede che: “(…) chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge (…)”.

Dall’articolo sopra indicato si evince immediatamente che la normativa richiede il nesso di causalità tra la somministrazione del vaccino ed il danno subito dalla parte.

È fondamentale sottolineare il citato nesso di causalità in quanto la risarcibilità del danno è subordinata al danno derivante dal vaccino stesso, pertanto, nel caso in cui il vaccino non faccia effetto sul soggetto, e quindi quest’ultimo contragga la malattia per la quale si era preventivamente vaccinato, il medesimo non avrà diritto ad alcun risarcimento. 

I Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno infatti chiarito che: “(…) Il testo della L. n. 210 del 1992, art. 1, comma 1, pertanto, depone nel senso che l’indennizzo è stato riconosciuto dalla legge solo ove vi sia un nesso causale tra la somministrazione del vaccino ed il danno patito dal soggetto passivo del trattamento sanitario obbligatorio.

Il fatto generatore del diritto all’indennizzo è, dunque, l’inoculamento del vaccino che si sia, poi, rivelato dannoso per il soggetto.

L’interpretazione letterale della norma, ma anche considerazioni di ordine sistematico che tengano conto dello scopo della disciplina in esame, come sopra riportato, portano ad escludere che il diritto all’indennizzo spetti a coloro che contraggano la malattia dopo essersi sottoposti a vaccinazione in conseguenza dell’inefficacia della stessa sul loro organismo. (…)”.

In virtù di quanto sopra, si deduce che per ottenere l’indennizzo di cui alla L. 210/1992, l’interessato dovrà provare che il danno sia direttamente derivato dall’essersi sottoposto al trattamento vaccinale, la prova dovrà esser valutata in forza del criterio di ragionevole probabilità scientifica.

***

Il demansionamento.

Si ha demansionamento quando il datore di lavoro impone al lavoratore una mansione inferiore rispetto al suo livello di inquadramento professionale.

Il demansionamento è illegittimo, salvo 3 ipotesi espressamente disciplinate dall’art. 2103 c.c., la prima ipotesi si ha quando l’azienda apporta una modifica degli assetti organizzativi tale da influire sulla posizione del lavoratore, in questo caso il demansionamento è legittimo purché le nuove mansioni inferiori rientrino nella medesima categoria legale delle attività previste dall’inquadramento del lavoratore. La seconda ipotesi, si ha quando le mansioni inferiori rientranti nella stessa categoria legale sono previste dai contratti collettivi. La terza ipotesi si ha nel caso in cui la modifica delle mansioni viene concordata presso le c.d. sedi protette, fondamentale è che da tale accordo si riscontri un interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Ad ogni buon conto, il datore di lavoro ha l’obbligo, a pena di nullità, di informare per scritto il lavoratore delle nuove mansioni inferiori che dovrà svolgere.

Orbene, il lavoratore demansionato manterrà lo stesso livello di inquadramento nonché la medesima retribuzione, salvo per le somme retribuite in forza delle specifiche modalità di esecuzione delle prestazioni collegate all’adempimento delle pregresse attività.

In ogni altro caso, il lavoratore potrà agire in giudizio per il riconoscimento della qualifica corretta arrivando, nel caso in cui il demansionamento impedisca la prosecuzione del rapporto lavorativo, a rassegnare le dimissioni per giusta causa.

L’onere di provare la legittimità del demansionamento è a carico del datore di lavoro, sul punto la Suprema Corte di Cassazione è concorde nell’affermare che: “(…) Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. (…)” (Cassazione civile, Sez. Lav., 3 luglio 2018, n. 17365, nello stesso senso: Cass. 18 gennaio 2018, n. 11169; Cass. 9 luglio 2018, n. 17978; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, Cass. 13 aprile 2016, n. 7300; Cass. 17 settembre 2015, n. 18223; Cass. 22 dicembre 2015, n. 25780).

***

Risarcimento danni derivante dalla mancata manutenzione della strada.

La problematica in oggetto prende le mosse dall’art. 2051 c.c., rubricato: “(…) danno cagionato da cosa in custodia (…)” in virtù del quale salvo il caso fortuito, chi ha la custodia di una cosa è responsabile del danno dalla medesima cagionato.

Orbene, in virtù del disposto normativo appena indicato si deduce che in caso di sinistro si presume la responsabilità dell’ente proprietario, o del gestore, salvo che venga data la prova del caso fortuito, ossia venga provata l’imprevedibilità dell’evento dannoso e che il medesimo non era tempestivamente evitabile o segnalabile.

Quanto sopra sta a significare che l’Amministrazione, per non vedersi condannata al risarcimento, avrà l’onere di provare che l’evento dannoso sia diretta conseguenza di cause esterne ed improvvise non conosciute, conoscibili, né eliminabili con immediatezza, nemmeno con la più scrupolosa attività di manutenzione (Cass. Civ., Sez. VI, 27 marzo 2017, n. 7805)

In questo scenario, assume primaria rilevanza anche la condotta tenuta dal danneggiato, il quale ai sensi dell’art. 1227 c.c. potrà integrare la nozione di caso fortuito, ossia potrà liberare da ogni responsabilità il custode della strada.

Infatti, la Suprema Corte di Cassazione recentemente ha avuto modo di chiarire che: “(…) nella nozione di caso fortuito rientra il concorso di colpa del danneggiato, con la conseguenza che la cosiddetta prova liberatoria può essere fornita tramite la dimostrazione della colpa del danneggiato, laddove il suo comportamento ha rilevanza causale ed incidenza sulla determinazione del danno (…)” (Cass. civ., Sez. VI – 3, Ord., 25 gennaio 2022, n.2071), dalla pronuncia appena indicata, si deduce come il custode potrà liberarsi da qualsivoglia tipo di responsabilità provando il comportamento non prudente della vittima. Nel caso di specie, gli Ermellini hanno escluso la responsabilità dell’ente manutentore per caso fortuito evidenziando la condotta colposa del soggetto il quale non ha prestato la corretta attenzione nel camminare ed è inciampato, per sua esclusiva responsabilità, in un tombino situato al margine della strada.  

Per cui, anche alla luce della recente pronuncia giurisprudenziale si evince che l’utente, al fine di vedersi risarcire il danno subito, dovrà provare oltre al nesso di causalità tra l’accadimento ed il danno, anche la sua diligente ed attenta condotta e che il sinistro sia dipeso direttamente da un accadimento per il danneggiato occulto, imprevisto ed imprevedibile.